Ma Kabul
Ve lo racconto qui.
Afghanistan, Chiara Cardoletti: «Le donne tremano e vivono tremando»
La rappresentante UNHCR per l’Italia e la Santa Sede, che in Afghanistan ha vissuto e operato a lungo, ci racconta come si sta evolvendo la difficile situazione a Kabul e non solo
Restare in Afghanistan. Continuare a salvaguardare le donne e i bambini. Tenere aperte le Safe House, le strutture protette, nei distretti del Paese. Tessere reti di sostegno e costruire campi di accoglienza nei Paesi limitrofi, primi tra tutti Pakistan e Iran. Invocare il divieto di rimpatrio forzato di cittadini afghani, compresi i richiedenti che hanno visto respingere le loro domande di asilo. Sono queste le priorità di UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, che in Afghanistan conta, al momento, oltre 200 operatori sul territorio.
Una situazione mutevole
«La situazione è drammaticamente fluida, in continuo mutamento», racconta Chiara Cardoletti, rappresentante UNHCR per l’Italia e la Santa Sede, che in Afghanistan ha vissuto e operato a lungo, e con il Paese ormai nelle mani dei Talebani è in contatto quotidiano. «Non illudiamoci», dice. «Non possiamo svuotare l’Afghanistan. Dobbiamo restare e continuare a fare il nostro lavoro: vigilare, aiutare, informare. Soprattutto proteggere le donne, le prime vittime oggi come ieri in una società dove essere femmina condanna a una vita di paura, incertezza, soprusi e abusi –il tasso di violenza domestica è il più alto e il più efferato del mondo, non ha eguali».
Chiara Cardoletti, rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino, con una lunga e consolidata esperienza in AF.
Le donne hanno paura di diventare bersagli
Alle rassicurazioni dei Talebani sulla sicurezza dei cittadini e delle cittadine afgane, non crede nessuno. La popolazione si è barricata in casa, dietro quelle finestre e quelle porte che proteggono ma più spesso isolano e soprattutto nascondono gli effetti di una cultura in cui la donna, oggi come ieri, – specifica la Cardoletti – è un tool, ovvero uno “strumento” di misura dell’onore e della reputazione pubblica di una famiglia, e, come tale, soggetta a violenza, matrimoni forzati, limitazioni anche estreme della libertà personale, fino a essere atrocemente definite “bottino di guerra”.
«In alcuni distretti, i Talebani hanno chiesto alle donne di tornare a scuola e hanno garantito loro la partecipazione alla vita pubblica secondo i precetti della Sharia, ma nessuna vuole correre il rischio di esporsi e diventare un facile bersaglio», spiega la Cardoletti. Sono in attesa di capire letteralmente se e come muoversi. Le più impegnate nell’istruzione o in politica – come Zarifa Ghafari, 27 anni, sindaco della città ultraconservatrice di Maidan Shar, città di 35.000 abitanti nella provincia di Maidan Wardak – sono in pericolo costante. Tremano e vivono tremando, nel terrore di compiere quel passo falso che costi loro la vita o la sicurezza.
I corridoi umanitari non solo la soluzione
«Il problema Afghanistan è afgano», dichiara ancora la rappresentate UNHCR. «I tanti decantati corridoi umanitari verso l’Occidente sono una possibilità nell’emergenza, certo, ma non sono la soluzione: non tutti i cittadini – e le cittadine – sono pronti a lasciare il proprio Paese, né possono essere tutti accolti. Per questo vogliamo e dobbiamo agire sul territorio, mantenendo attive le nostre strutture di protezione, e negli Stati confinanti, creando le condizioni per i campi di accoglienza. E poi sensibilizzare, raccontare, non dimenticare».
La paura di essere dimenticate
Già, le afgane temono di essere dimenticate dal mondo.
«È il loro peggior incubo. Per questo chiediamo a tutte quelle donne in Occidente che ci domandano e si domandano oggi come aiutare, di cominciare da lì, dal tenerle a mente, dal continuare a pensarle e a sostenerle, scrivendone, parlandone, sensibilizzando l’opinione pubblica e supportandole economicamente, seppure a distanza».
In quelle drammatiche foto scattate negli aeroporti, o nelle pance degli aerei cargo, ci sono per lo più uomini…
«Ovvio, vale la legge del più forte. Senza contare che quelli che abbiamo visto in quelle immagini sono, nella maggioranza dei casi, gli afgani che hanno collaborato con le forze internazionali, e che hanno quindi più facilmente accesso alle vie e alle modalità di fuga. Kabul non è l’Afghanistan e l’Afghanistan non è soltanto Kabul: oltre alla capitale, c’è un inteso Paese da salvare».
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