Quando le sirene chiacchierano…
Il bello di quando scrivi è…quando ti leggono. E ti intervistano.
Non per vanità, ma perchè ti offrono l’occasione di raccontare la storia dietro le storie. Ecco la mia chiacchierata con Annamaria Trevale a proposito del mio nuovo romanzo Due sirene in un bicchiere (Feltrinelli, 2018) , blogger che avevo già incontrato in occasione dell’uscita del mio romanzo precedente, Quattro tazze di tempesta (Feltrinelli, 2016).
“Anche questa volta ci parla di più personaggi che si ritrovano, per un breve periodo, a condividere emozioni e problemi in uno spazio preciso, esperienza destinata a modificare in qualche modo il corso successivo delle loro vite.
In questo caso siamo sull’isola di Gozo, luogo caro all’autrice che vi si è trasferita qualche anno fa: un’isola piccola e selvaggia in mezzo al Mediterraneo, dove Dana e Tamara gestiscono l’anomalo bed&breakfast intitolato alle “sirene stanche”, che funziona solo per periodi limitati e accoglie persone con motivazioni differenti, ma accomunate dal desiderio di trascorrere un periodo di disintossicazione dalla loro vita quotidiana, una pausa necessaria da cui ripartire rimessi a nuovo. Dana e Tamara hanno entrambe alle spalle un passato difficile e doloroso, ma hanno trovato in questo bed&breakfast una nuova ragione di vita.
Il gruppetto che si riunisce questa volta comprende Lisa e Lara, due giovani gemelle milanesi, Jonas, pilota civile australiano, Olivia che è una cuoca spagnola ed Eva, giornalista inglese. Tutti sono arrivati lì per lasciarsi alle spalle qualcosa e prendere delle decisioni riguardo al futuro, ma prima di tutto devono spogliarsi delle maschere che indossano, ritrovando la sincerità prima di tutto con se stessi, perché, in realtà, non tutti sono ciò che vogliono sembrare agli occhi degli altri: per andare avanti, è sempre necessario chiudere i conti con il passato, cosa che non sarà facile per nessuno dei personaggi.
Federica Brunini è venuta a Milano per presentare Due sirene in un bicchiere nella sede della casa editrice Feltrinelli e in questa occasione ha risposto alle nostre domande.
Come è nato questo romanzo? Da una situazione, da un personaggio o dal luogo?
Il punto di partenza è stato il fatto che da cinque anni io vivo a Gozo, l’isola che racconto nel libro, sia pure in parte trasfigurata dall’invenzione narrativa. Gozo per me ha segnato un momento molto particolare della mia vita, in pratica un azzeramento: mi ci sono trasferita dopo un lutto che m’impediva di continuare a vivere nella mia realtà abituale.
Vivere su un’isola è un’esperienza particolare, soprattutto per una donna di pianura come me. Poi mi sono ispirata a una donna reale, che vive a Gozo, come Tamara crea oggetti artistici con gli scarti del mare e va a nuotare ogni mattina. A questi due elementi se n’è aggiunto un terzo, una tragedia accaduta a Gozo l’altra estate, quando un ragazzo, un turista quindicenne, è morto annegato in mare. Mi avevano colpito moltissimo le parole della madre di questo ragazzo, che aveva dichiarato di voler continuare a tornare sull’isola perché la vita di suo figlio si era fermata lì, e questo creava un legame tra lei e il territorio.
Il libro è nato dalla fusione iniziale di questi elementi.
I personaggi femminili del libro sono tanti. A quale si sente più vicina?
Come sempre, non esiste un personaggio solo che mi rappresenti, ma c’è un po’ di me in ciascuno di loro, anche in Jonas che è l’unico uomo del gruppo. I più lontani da me sono forse Dana, Lisa e Lara, soprattutto per ragioni anagrafiche.
Da quando si è trasferita a Gozo, cosa le manca della sua vita precedente in terraferma?
Sicuramente mi mancano gli amici, gli eventi culturali, il ritmo di vita metropolitano, l’avere spesso delle novità e il non avere costrizioni spaziali e temporali. A Milano potevo dire in ogni momento “adesso prendo l’auto e vado da qualche parte”, mentre ora lasciare l’isola è sempre una faccenda laboriosa.
La cosa curiosa dell’isola è che, quando ci arrivi, di solito avverti come un senso di decompressione dalla tua vita precedente, ma poi, col passare del tempo, entri in una specie di catatonia e non te ne vorresti più andare, soprattutto al pensiero di doverti preoccupare del viaggio di trasferimento, del traghetto, dell’aereo …
Io, tra l’altro, sono sempre stata una giornalista di viaggio, una persona piuttosto nomade e abituata a viaggiare spesso, per cui stando sull’isola ho scoperto questa strana riluttanza a muovermi che mi era del tutto sconosciuta. Io la chiamo “isolitudine”.
I personaggi appaiono tutti molto riluttanti a staccarsi dalla loro vita abituale.Dopotutto, anche in passato le persone andavano in vacanza e si prendevano delle pause dalla vita quotidiana. Perché nel mondo di oggi sembra essere diventato così difficile il distacco?
Non abbiamo più tempi di recupero. La vita dei nostri nonni era faticosa, ma avevano tempi di recupero: c’erano le pause, le feste generalizzate per tutti, i giorni in cui davvero nessuno lavorava. Oggi noi, più che andare in vacanza, sembriamo fuggire dalla nostra vita quotidiana. Io per prima mi sono resa conto che viaggiavo per allontanarmi da una realtà che non mi stava più bene, e da questo ho capito che oggi viviamo tutti piuttosto male.
Perché ho lasciato Milano per andare a vivere su un’isola? Non solo per le mie vicissitudini personali, ma anche perché mi sono resa conto che quella che facevo non era più una vita. Correre sempre non è vivere. Oggi continuo a lavorare, eppure mi sento molto più libera, con la sensazione di fare quello che voglio quando voglio. Credo dipenda anche dal fatto di avere davanti agli occhi il mare tutti i giorni. Non avverto più l’esigenza di fuggire perché la mia vita mi assomiglia di più, scorre secondo i miei ritmi e non quelli folli che cercano di imporci.
Una delle regole delle vacanze al B&B delle Sirene stanche riguarda il restare per la maggior parte del tempo lontani dalla rete. Possiamo sperare di smettere di considerare vitale la connessione continua?
Secondo me sì, ci stiamo arrivando. I “digital detox” a cui accenno nel libro si stanno diffondendo. Sono stata di recente negli Stati Uniti e ho sentito parlare spesso del concetto di “reset”, del riprendere in mano la propria vita allontanandosi dall’idea di essere sempre connessi. È anche vero che forse è impossibile farlo sempre, perché la connessione ormai ti serve per un sacco di cose, dal prenotarti il volo e l’albergo al controllare il conto corrente: spesso è una dipendenza utile, non si riduce solo al passare troppo tempo sui social.
Abbiamo comunque anche l’esigenza di tacere un po’ e di passare più tempo in silenzio. Senza il silenzio non esiste spazio per il tuo pensiero creativo e tu diventi solo un esecutore. La tragedia di oggi è che ci sentiamo tutti protagonisti, soprattutto nei social, e invece viviamo immersi in uno stato di schiavitù”.
Nel libro si parla molto di cibo: cibo come terapia e cibo come creatività. Qual è il suo rapporto personale col cibo?
Questa cosa è strana, perché io in realtà non sono una cuoca e non amo cucinare. Però mi piace pensare che chi cucina abbia una predisposizione particolare per gli altri, perché offre loro qualcosa. Chi cucina per me ha una marcia in più, tanto che a me spiace non esserne capace. Noi abbiamo perso la cura di noi stessi e degli altri, la cucina è un modo importante di prendersi cura degli altri, di ritrovare una dimensione che si è persa.
A me piace molto vedere le persone che cucinano, vedere come trasformano gli ingredienti per creare un piatto, allo stesso modo in cui mi piace veder dipingere. Invidio un po’ tutti coloro che hanno una manualità spiccata, che a me manca.
A proposito della necessità di trovare altri ritmi: non pensa che anche per quanto riguarda i viaggi bisognerebbe riscoprirne una dimensione diversa, come in fondo accade ai personaggi del romanzo?
Io non credo che oggi la gente viaggi, ma solo che si stia spostando. Il viaggio è un’altra cosa. Il tempo è poco, va ottimizzato e manca la possibilità di scoprire, di esplorare, magari anche di sbagliare sttrada. Se sbagli strada perdi tempo e non riesci a seguire il programma prestabilito, ma spesso è sbagliando strada che si fanno le scoperte più interessanti.
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