Tempo di librarsi (in volo)

Leggere la recensione del proprio romanzo è un atto di fede in chi la scrive. In chi, sulla base delle pagine del tuo romanzo, indovina chi sei o almeno ci prova. Luisella Pescatori ha scritto de #lacirconferenzadellalba sull’Huffington Post e ha scritto di me, dicendo quello che nemmeno io so raccontare di me stessa. Svelandomi ai lettori e a me. E io le sono grata.

La circonferenza dell’alba di Federica Brunini (Feltrinelli) spiega attraverso la metafora dello sport coma talvolta si debba tornare indietro per riuscire ad andare avanti

Nella preparazione di un salto in lungo, di uno slancio, l’atleta, prima dello stacco, carica la spinta andando indietro col corpo. Oscilla, ondeggia, sa che non gli basta una rincorsa di venti metri, ma è lì, in quel punto preciso, che ha la prospettiva perfetta per superare spazio e tempo che lo separano dalla sua conquista: andare il più lontano possibile.

Per lanciarsi nel domani serve calibrarsi nel passato. Per andare oltre bisogna spingersi indietro. Indietro dove ci sono equilibri da risolvere. L’atleta ha una zona limite da cui poter saltare, si chiama “asse di battuta”.

Giorgia ne La circonferenza dell’alba, di Federica Brunini, deve trovare il suo asse di battuta, per superare un vuoto, ma lo capisce e lo accetta solo quando compie un viaggio a ritroso, nella geografia e nel tempo delle sue emozioni.

È una questione di rinascita, che passa attraverso la capacità di adattarsi agli urti della vita e alleggerirsi dei contrappesi del passato. Un adattarsi che non vuol dire soccombere ma vuol dire fermarsi in quel punto preciso di resilienza, per uscirne resistenti – esistenti –vivi. Non a caso l’etimologia di resilienza riporta a resilio, un rimbalzo all’indietro, che serve per assimilare, metabolizzare, contraccolpi e trovare un centro del sé, in divenire.

Giorgia lavora per una ONG in Asia, sa salvare donne e bambini dalle strade; vive dei loro sorrisi pieni di gratitudine ma, nella sua sobrietà, non ammette spazio per altro.

È coraggiosa e generosa, il suo lavoro la gratifica, ma la sua vita è una capitolazione alle circostanze del passato, è una diserzione della vita stessa, una rassegnazione al dolore.

Un accontentarsi senza mai essere felice.

Per salvarsi, dalla sua non consapevolezza, non le è servito fuggire da casa, dall’Italia, dalla sua famiglia. Non le è servito preparare una valigia, partire per il mondo e lasciare tutto sigillato come dentro a una grande scatola di specchi, messa in un angolo nero del cuore.

Jean Giraudoux (1882 – 1944) scrittore e commediografo francese, nella sua raccolta di aforismi Le sport1924 scriveva: Fa’ che il tuo corpo non sia la prima fossa del tuo scheletro. Una cruda metafora.

Non possiamo morire di noi stessi, non possiamo soccombere ai ricordi dolorosi seppelliti nel sottopelle perché o prima o poi trasudano e ci sanguinano addosso. Dobbiamo agire, muoverci, allenarci a vivere e, per farlo, dobbiamo spostare il baricentro, uscire dalla comfort zone, far pace con noi stessi, col nostro passato, con le perdite, con gli abbandoni, per acquisire consapevolezza e affrontarci nella luce.

Nessuno può restare, e nemmeno resistere – esistere – in una fossa di negazioni create e ricreate per mistificare la sofferenza.

Per salvarsi Giorgia deve tornare là, in Italia, sulle rive del Lario, dove sa che è doloroso tornare. Deve tornare da dove è partita, dalla villa di famiglia, Villa Carla. L’occasione per farlo è firmarne l’atto di vendita. Tra quelle pareti, in quella scatola di riflessi, tra superfici specchiate, non solo del lago, si spaziano i riverberi del passato – ricordi ingombranti, realtà oggettive – e voci dense, corporee, di memoria e di assenze; voci come quella paterna che risuona ancora tra i mille richiami di quel luogo.

Voce che l’aveva imboccava di frasi poetiche, che l’aveva capita, compresa, davvero. Voce che le aveva trasmesso coraggio e generosità. Ma la verità non era quella che lei vedeva e aveva ascoltato. Lei stessa non è quella che credeva di essere. Giorgia si ritrova a fare i conti col suo egoismo e con un ritrovamento consapevole di sé.

In questa circonferenza di ritorni, così come torna Giorgia, ritorna l’alba che ammorbidisce i risvegli, “e bagna di rosa il lago, le montagne, la terra, ogni cosa”. L’alba che non è solo perpetuo passaggio tra notte e giorno ma è anche Zora, una donna e una nuova verità sulla vita del padre, è anche Zora la barca “ormai disalberata e ricoverata come una reliquia nella rimessa, dopo l’ultimo giro di vento e di vita del padre”.

Giorgia deve imparare a resistere a quel vento, e a quel punto-mostro, (come lo chiamava lei da bambina) dell’orizzonte da cui o prima o poi emerge la creatura che abita le profondità del lago.

Il lago contenuto nella terra che vi si riflette, intorno, rovesciata. Il lago simbolo dell’inconscio e dell’introspezione. Il lago, calma e inquieta acqua. Acqua, il primo elemento che accoglie, il primo dell’angoscia, il primo della nascita. E non è un caso che Giorgia abbia deciso di tornare sulle rive del suo lago, per immergercisi, partorirsi da sola, ritrovarsi.

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